Che c’è di male nel volersi migliorare? Voler crescere, essere maturi ed evolvere è un’impulso elevato e bellissimo. Possiamo concordare sul fatto che ricercare eccellenza è un desiderio comprensibile e sensato, ma non lo è più quando è una reazione al senso di perdita dell’Essere, una ricerca coatta e inconsapevole di ricreare l’idea che abbiamo dell’esperienza del sacro. Vogliamo sentirci buoni, gentili, parte di un universo bello e intelligente e finiamo per chiuderci in una prigione di ipocrisia.
Il “lavoro su di se” in questi ultimi anni ha perso un po’ lo smalto avuto nei trascorsi 30, ma soprattutto nella mia generazione ancora ha un certo fascino. In questo anelito al buono e al virtuoso si nascondono tuttavia diverse possibili trappole. Molti individui lavorano su di se per diventare migliori o differenti da come sono, per aggiustarsi. Un desiderio che si basa sul preconcetto che c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato in se stessi, se non in tutta la specie umana. Questo preconcetto porta a impegnarsi in terapie, cure di vario genere, svariate pratiche e discipline spirituali. Si paragona il proprio sentire, la propria esperienza e la propria vita a qualche modello o idea spirituale di riferimento. Alcuni arrivano a indulgere in discipline, strategie o tattiche auto-coltivate. Altri necessitano di riferimenti a saggi o guru per sentirsi sulla strada giusta verso il perfezionamento, per avere linee di condotta corrette su come comportarsi, perfino su come essere o per sentirsi nell’appropriata uniforme.
La trappola è che quando il miglioramento si basa su un senso di giusto e sbagliato in se stessi, negli eventi e nel mondo, e sulla convinzione che ci sia qualcosa da correggere, ci si imbarca nella direzione inversa a quella anelata.
Sappiamo quanto la dottrina cristiana del peccato originale è collegata a questo senso di essere intrinsecamente corrotti e peccaminosi. La credenza di un errore interno induce a sentirsi difettosi, inadeguati e in colpa quando si ritiene di non raggiungere modelli interiori d’eccellenza. E’ un’attitudine che alimenta il paragone cronico e il giudizio assoluto riguardo ciò di cui si sta facendo esperienza. Porta a dare esagerata importanza a stati emotivi considerati negativi e a sviluppare difese contro il farne esperienza. Provoca un senso di frustrazione esagerata rispetto agli accadimenti e mantiene la rabbia inconsapevole. Nutre la proiezione che il riscontro degli altri contenga sempre, per quanto blanda, una critica. Spinge a seguire strutture che non nutrono le reali priorità e desideri sentendo di dover sistemare ciò che è andato terribilmente male, di dover raddrizzare l’ambiente e le persone. L’idealismo che nutre questo schema vive con il senso di responsabilità personale a instillare saggezza negli ignoranti, a mostrare agli altri come fare qualcosa di utile e produttivo nelle loro vite. Provoca rigidità e inflessibilità verso disciplina e pratica e trasforma l’intuizione in condanna di se e degli altri. Sono gli altri che non “lavorano su se stessi” abbastanza, che hanno resistenze, che non ascoltano i consigli, che dovrebbero cambiare.
Spesso al dialogo interno ricco di giudizi assoluti circa il giusto “lavoro su se stessi” per crescere ed essere spiritualmente adulti, si accompagnano la dolorosa esperienza emotiva di risentimento, tormento e rimorsi e anche specifiche tensioni fisiche nella zona del bacino, del petto e del collo. La sensazione è quella di essere serrati da una cintura, il respiro diventa debole, le spalle contratte, l’ano e la mascella serrati.
Le pratiche spirituali e le tecniche sono importanti e richiedono una struttura fissa e ripetitiva, tuttavia è necessario che conducano a uno spazio di libertà, che lo alimentino e lo sostengano. Se intrappolano, sono motivate dalla paura, dalla rabbia e dala sfiducia, non dall’amore.
La spontanea creatività della struttura è una danza della dualità, un riconoscimento dell’equilibrio di elementi positivi e negativi che esistono in ogni momento.
La serenità che accompagna le reali trasformazioni ed evoluzioni è possibile solo con il rilassamento e l’accettazione dei tratti della personalità che si tende a giudicare sbagliati, che si ritiene non dovrebbero esserci. Il rifiuto di parti di se stessi, soprattutto quando non riconosciuto, porta al rifiuto dell’altro ed è dolorosissimo. E’ un costante abbandono di se. È masochismo, disperazione.
Qualcuno ora ha già compreso che le qualità dell’esperienza che sto descrivendo appartengono al punto Uno dentro ognuno di noi. Ovviamente molto più forti e radicate per chi vive in questo territorio, Il tipo Uno. Tuttavia è importante riconoscere quanto tutti, indipendentemente dal tipo, abbiamo accesso alle qualità di questo punto soprattutto quando siamo nell’area del famigerato “lavoro su di sé”. C’è una parte di noi che costantemente vuole aggiustare, migliorare, raddrizzare lo storto in se stessi e nel mondo, che cerca di creare una falsa versione dell’equilibrio, dell’integrità, dell’onestà e della virtù che mai potrà soddisfarci.
Tutti abbiamo fatto esperienza del preferire avere ragione all’avere connessione e amore. A rendere ancora più complicato questo schema c’è il fatto che il punto Uno in ognuno di noi è in perenne conflitto con un’altra parte di noi, quella che non ne può più di sforzarsi per migliorare, quella che smania di essere libera di fare ciò che le pare, che ha totale disinteresse per la crescita personale, per la moralità, per la dieta corretta, per il calendario di lavoro da seguire. Sotto il tappeto del virtuoso ci sono egoismo e senso di ribellione.
Come pratica per scoprire il nostro punto Uno bloccato nello schema limitante potremmo per qualche giorno annotare su un quaderno quanto tempo quotidiano occupiamo in opinioni e critica che riflettono lo schema di pensiero giusto/sbagliato. Quante volte al giorno siamo contrariati con noi stessi e con gli altri. Con quali ideali ci misuriamo, che natura hanno questi ideali e che effetti hanno sulla nostra vita. Poi è utile intercettare una reazione tipica di questi momenti: un pensiero, un’emozione o una sensazione fisica. Conoscere come funzioniamo nella mente, nel cuore e nell’agire è l’unica via di libertà dall’automatismo.
Il paradosso è che possiamo essere efficaci veicoli di evoluzione, bontà e grazia solo se siamo in accordo con la situazione, senza rifiutarla. Accettare totalmente ciò che sta accadendo ed accoglierlo è il passo fondamentale che questo punto ci invita a fare perché il “lavoro su di sé” sia Lavoro. La non accettazione della realtà è una caratteristica importante del punto Uno a Livelli medi e bassi, ben mascherata dall’idealismo e dallo sforzo di migliorare le cose, attitudini che implicano la non accettazione della realtà.
Essere presente con ciò che è qui ora senza rifiuto è Lavorare con la realtà, cosa ben diversa dal subire e sopportare.
È necessario rendersi conto di essere finiti in questa trappola per poterla accogliere e per intenzionalmente permettere un movimento oltre la essa. Consapevolmente concedere all’esperienza di essere quello che è e lasciare spazio agli errori umani, senza senso di colpa o bisasimo degli altri. Spontaneità e flessibilità permettono la comprensione che i malintesi e gli strafalcioni sono necessari sul percorso evolutivo, tanto quanto il bisogno di equilibrio e ordine.
Il primo sostegno per accettare la realtà del momento è la presenza nel corpo. Non nell’idea che ne abbiamo, non a come ci fa sentire emotivamente, bensì proprio nei sensi, nei muscoli, nel sangue, nelle ossa, nelle viscere. E poi lasciare spazio alla spontaneità, alla curiosità, al desiderio di esplorare ciò che accade e di allargare i propri orizzonti. Tutto questo aiuta a rimanere collegati all’interiore senso di sacro, divino, equilibrato, buono e integro. E anche a riconoscere che l’evoluzione e la crescita non richiedono lo sforzo e il controllo che ci immaginiamo e che ci infliggiamo. Conduce alla gratitudine per ciò che è.
Abbiamo bisogno di sviluppare consapevolezza e comprensione riguardo al ruolo che giochiamo nel quadro evolutivo. Riconoscere un impulso evolutivo è partecipare consapevolmente nel processo creativo dell’evoluzione. Noi lavoriamo su noi stessi proprio perché non siamo separati dal processo evolutivo dell’esistenza e poiché vogliamo partecipare coscientemente allo svolgimento della vita a beneficio dell’evoluzione della coscienza stessa.
Quando iniziamo a svegliarci iniziamo anche a essere davvero stanchi delle nostre opinioni, vogliamo onorare la bellezza di tutto ciò che siamo e di chi siamo, l’umanità, l’intimità, la fiducia.
Il mio augurio è che questi mesi estivi siano dedicati al sostegno delle basi del Lavoro, alla sintonizzazione con il proprio corpo, all’amorevolezza con se stessi e al potere del discernimento.
Maura Amelia Bonanno