Che c’è di male nel voler raggiungere obiettivi? Voler realizzare qualcosa, essere competenti e farsi valere è un impulso elevato e bellissimo. Possiamo concordare sul fatto che avere aspirazioni e ambizioni è un desiderio comprensibile e sensato, ma non lo è più quando è una reazione costante al senso di perdita dell’Essere, una ricerca coatta e inconsapevole di ricreare l’idea che abbiamo dell’esperienza della preziosità e del valore. Vogliamo sentirci capaci, realizzati, parte di un universo raggiante e appagante e finiamo per chiuderci in una prigione di finzione e apparenza.
In questi ultimi anni essere efficienti, funzionanti e avere una qualche forma di successo è diventata un’attitudine e una spinta per la grande maggioranza degli esseri umani. Un anelito a essere il meglio che si può essere in cui si nascondono tuttavia diverse possibili trappole. Molti individui sono incessantemente impegnati in attività per raggiungere qualcosa, nel lavoro, nella materialità e anche in ambito spirituale, per essere apprezzati dagli altri o da referenze esteriori. Un desiderio che si basa sul preconcetto che il proprio valore dipenda dallo sforzo e dal riconoscimento delle mete conquistate.
Questo pregiudizio porta a lottare senza sosta per concretizzare dei traguardi da raggiungere. Alcuni si concentrano su come sono visti e considerati dagli altri e danno molta attenzione a come migliorare l’apparenza, a rendere più attraente, gradevole e raffinato il modo di presentarsi. Altri hanno un’esagerata attitudine a fare un buon lavoro in modo che gli altri ne riconoscano abilità e merito, traendo significato da ciò che fanno, ciò che sanno e ciò che possiedono.
La trappola è che il fine in se stesso alla fine non è importante quanto l’attività perché la meta continua a cambiare mentre ciò che permane è lo sforzo. Quando il senso del proprio valore si basa sul raggiungimento di un traguardo, sul ruolo che si ricopre e sulla convinzione che sia necessario fare tantissimo per ricevere approvazione e ammirazione, ci si imbarca nella direzione del senso di inutilità inversa a quella di soddisfazione anelata.
Sappiamo quanto praticamente tutti gli ambiti della attuale società occidentale spingono alla prestazione, a inseguire obiettivi senza curare la reale motivazione di tanti sforzi, all’apparenza invece del contenuto, a credere che la realizzazione sia l’ottenimento di qualcosa. È un’attitudine che alimenta il paragone, la manipolazione di se stessi e degli altri e l’inganno di essere davvero l’immagine ideale di successo che si cerca di presentare e di diventare.Spinge a seguire obiettivi che non manifestano i propri reali desideri e talenti sentendo di dover competere e promuovere se stessi per poter valere qualcosa e per non rimanere indietro.
Il narcisismo che nutre questo schema vive con l’illusione della propria superiorità e il senso di dover costantemente convincere se stesso e gli altri circa la realtà delle idee grandiose riguardo a se stessi e alle proprie capacità. Provoca arroganza e disprezzo per gli altri, separa, uccide il talento e trasforma il proprio sogno nella recita di un ruolo che sia approvato e ammirato. Porta a diffamazione, immoralità, fraudolenza. Sono gli altri che non “valgono nulla”, che non si danno abbastanza da fare, che non sanno adattarsi e sfruttare le situazioni, che dovrebbero impegnarsi di più.
Spesso al dialogo interno ricco di giudizi assoluti circa l’adeguata spinta e motivazione a raggiungere obiettivi si accompagnano la dolorosa esperienza emotiva di timore di fallire nelle imprese che si intraprendono, di perdere lo sguardo positivo degli altri e la fiducia in se stessi, di non avere nulla dentro che valga davvero e che la propria falsità e vuoto siano scoperti ed esposti.
Le pratiche e le tecniche spirituali, tanto quanto lo svolgimento di un lavoro o le relazioni, richiedono certamente un impegno, tuttavia è necessario che sostengano l’essere, non il fare. Cercare di far cessare la lotta interiore o di credere di stare bene dove si è oltre che essere impossibile diventa un altro sforzo. Lo stesso se si desidera smettere di desiderare o se si cerca di fare il non-fare.
Quando le pratiche spirituali sono seguite per diventare qualcos’altro rispetto ciò che si è si trasformano in un adempimento e il controllo dell’attività impedisce che abbia effetto lo stato di soddisfazione evocato. La spiritualità diventa un lavoro da imparare, un incarico, una meta. Per esempio spesso ho incontrato partecipanti ai corsi di crescita personale che prendono informazioni da usare per proporre loro stessi un corso o per accaparrarsi studenti. Oppure il Signor o la Signora competenza e bravura che non riconosce, né di mostra i propri dubbi e la propria ansia. Probabilmente non solo io mi sono accorta che i nuovi guru spirituali di questa epoca che imperversano sui social media sono dei ripetitori vuoti, tutti individui che brillerebbero molto di più di luce propria se contattassero se stessi e il proprio reale talento.
Il senso di compimento che accompagna le realizzazioni è possibile solo con il concedere di essere toccati e influenzati, con il mollare il controllo e permettere che le cose siano fatte attraverso di noi, invece che da noi. È l’azione nella non-azione, fare mediante il non-fare. È rimanere un passaggio che permette all’esistenza di fluire attraverso di noi, senza tensione, ansia o ossessione riguardo al fare che portano solo frustrazione, esaurimento e senso di inutilità.
Qualcuno ora ha già compreso che le qualità dell’esperienza che sto descrivendo appartengono al punto Tre dentro ognuno di noi. Ovviamente molto più forti e radicate per chi vive in questo territorio, Il tipo Tre. Tuttavia è importante riconoscere quanto tutti, indipendentemente dal tipo, abbiamo accesso alle qualità di questo punto soprattutto quando siamo nell’area della motivazione e degli obiettivi da raggiungere.
C’è una parte di noi che non sa quanto valiamo davvero e preferisce non contattare il senso di vuoto e vergogna che questo provoca. Al contempo è disperata di sentirsi importante e cerca di impressionare gli altri, ricevere riconoscimento, creare una falsa versione del valore e del successo che mai potrà soddisfare.
Tutti abbiamo fatto esperienza dell’inseguire obiettivi impegnandoci a fondo senza chiederci perché sono importanti e se davvero ci nutrono, perdendo il senso di chi è a ricoprire il ruolo, del perché lo stiamo facendo.
A rendere ancora più complicato questo schema c’è il fatto che il punto Tre in ognuno di noi è in perenne conflitto con un’altra parte, quella convinta che fermarsi a sentire i propri sentimenti e desideri profondi allontanerebbe dall’immagine che si vuole salvaguardare, che non ha alcuna voglia di sentire la dipendenza dagli altri per la propria autostima, che ha difficoltà a chiedere aiuto e sostegno. Sotto il tappeto dell’efficienza e del successo ci sono paura e vergogna.
Come pratica per scoprire il nostro punto Tre bloccato nello schema limitante potremmo per esempio annotare su un quaderno in quali modi riconosciamo di essere competitivi e guidati dal successo. Come ci sentiamo rispetto a chi compete con noi o quando ci paragoniamo agli altri. Perché abbiamo le mete che stiamo inseguendo. Se per il bisogno di eccellere ci siamo infilati in progetti che non ci interessavano veramente. Cosa succederebbe se sollevassimo un po’ il piede dall’acceleratore.
Poi è utile intercettare una reazione tipica di questi momenti: un pensiero, un’emozione o una sensazione fisica connesse a queste esperienze. Conoscere come funzioniamo nella mente, nel cuore e nell’agire è l’unica via di libertà dall’automatismo.
Il paradosso è che possiamo essere efficaci veicoli di realizzazione, preziosità e valore solo se siamo attivi non perché dobbiamo fare qualcosa o perché non riusciamo a rilassarci, ma perché siamo un’infinita energia disponibile, traboccante. L’attività non è solo azione. Anche quando quando inattivi, seduti o coricati in riposo, siamo pieni di d’energia in recupero.
L’illusione di doverci manipolare e di dover calcolare cosa fare per brillare e valere è una caratteristica importante del punto Tre a Livelli medi e bassi, ben mascherata da ambizione, motivazione, efficienza e adattabilità. Il punto Tre in noi è la parte che ha la crisi di mezza età o le crisi esistenziali o spirituali. È la crisi che nostra società sta vivendo oggi. Questo momento storico sta portando alla luce tantissime maschere, spinge al passo cui questo punto ci invita: alla sincerità, all’autenticità, al fare ispirato dall’essere, al funzionare in sintonia con il cuore, motivati da ciò che davvero nutre l’anima e che davvero soddisfa chi siamo.
Per questo è necessario rallentare, fermarsi abbastanza per riconoscere ciò che sta accadendo dentro di noi. Questo include vedere quanto abbiamo valutato solo le cose eseguite in automatico, quanto abbiamo preso parte o fatto qualcosa senza esserci davvero stati, quanto abbiamo recitato un ruolo non nostro e anche quanto ciò che abbiamo realizzato è stato frutto di una interconnessione con gli altri, non un’opera individuale.
È necessario rendersi conto di essere finiti in questa trappola per poterla accogliere e per intenzionalmente permettere un movimento oltre la essa. Consapevolmente concedere all’esperienza interiore di essere quello che è, vedere la verità di come dei meccanismi automatici cercano disperatamente di essere reali e di sostituire la nostra vera natura. Solo così possiamo essere autentici.
Il primo sostegno per riconoscere la realtà interiore del momento è la presenza nel corpo. Non nell’idea che ne abbiamo, non a come ci fa sentire emotivamente, bensì proprio nei sensi, nei muscoli, nel sangue, nelle ossa, nelle viscere. E poi con coraggio e con l’adeguato sostegno lasciare spazio alla curiosità, al desiderio di esplorare ciò che accade, di onorare i propri sogni, di conoscere e manifestare i propri reali talenti. Tutto questo aiuta a rimanere collegati all’interiore senso di prezioso, brillante e pregiato. Anche a riconoscere che il vero successo è la manifestazione della radiosità dell’anima di ciascun individuo e che richiede coraggio certo, ma non richiede lo sforzo e il controllo come crediamo e immaginiamo che siano e che ci infliggiamo. Conduce alla modesta accettazione di se stessi, alla benevolenza, alla generosità, al dare credito quando è dovuto, alla scoperta del servizio e del lavoro disinteressato.
Quando iniziamo a svegliarci iniziamo anche a essere davvero stanchi di sentirci degli attori solisti, vogliamo cooperare con gli altri, lavorare per scopi e progetti che hanno un significato più grande della gloria individuale. In particolare chi come me in questo momento storico è orientato verso il nuovo ha bisogno di riconoscere e ricordare che stiamo partecipando in una rete interconnessa di sostegno. Quando iniziamo a essere migliori per un bene più grande e non solo per noi stessi scopriamo che il vero senso di preziosità si sviluppa in proporzione a quanto possiamo operare per gli altri. Tutti noi ogni volta che facciamo qualcosa di molto soddisfacente non stiamo pensando solo a noi stessi, bensì siamo in un flusso in cui adempiamo il nostro ruolo invece di cercare di costruirlo e questo dà senso alla nostra vita.
Auguro un agosto che abbracci l’umile verità che ci rende umani e ci permette di essere chi siamo nel modo esatto in cui siamo.
Maura Amelia Bonanno