Che c’è di male nel voler scoprire il mistero di chi si è? Voler trovare il proprio significato personale, il proprio vero sé, è un’impulso elevato e bellissimo. Possiamo concordare sul fatto che scoprire la propria vera identità è un desiderio comprensibile e sensato, ma non lo è più quando è una reazione al senso di perdita dell’Essere, una ricerca coatta e inconsapevole di ricreare l’idea che abbiamo dell’esperienza di connessione profonda e intimità con se stessi. Vogliamo sentirci autentici, onesti con noi stessi, esprimere l’originalità e l’unicità della nostra vera natura, e finiamo per chiuderci in una prigione di sofferenza.
In questo anelito all’individualità si nascondono diverse possibili trappole. Molte conclusioni che prendiamo per buone riguardo alla realtà di chi siamo sono eccessivamente influenzate dal modo in cui ci capita di sentirci e dal volerlo cambiare. Un desiderio che si basa sul preconcetto che le nostre emozioni siano un riferimento affidabile e inequivocabile. Questo preconcetto porta all’identificazione con la propria dimensione emotiva e con la propria storia personale per prolungare determinati stati emotivi.
Alcuni arrivano a vivere nei ricordi del passato e nelle attese sul futuro. Altri necessitano di terapie senza fine per alimentare la costante ricerca di se stessi, per sentirsi più profondi e sensibili degli altri. La trappola è che quando la ricerca della propria vera identità si basa su un senso di mancanza da colmare e sulla convinzione che la sofferenza sia sinonimo di profondità e quindi necessaria nella via verso l’autenticità, ci si imbarca nella direzione inversa a quella anelata.
Sappiamo quanto le nostre religioni monoteiste sostengano il dolore come cruciale nel processo di crescita. Valorizzare il dolore, se non addirittura cercarlo, induce a sentirsi abbandonati da Dio, alienati, inadeguati, deprivati di qualcosa di se stessi in modo da giustificare la continua ricerca di soddisfazione emotiva e tristi quando si ritiene di non avere speranza a riguardo.
E’ un’attitudine che alimenta il vittimismo e il controllo interiore costante circa ciò che si prova. Porta ad avere sempre le stesse emozioni, a essere insoddisfatti di ciò che accade e del riscontro ricevuto, a sentirsi trascurati, incompresi, diversi e sfortunati. Spinge a prendere ciò che accade in modo personale e provoca un senso di frustrazione e delusione rispetto all’attitudine degli altri. Nutre l’idealizzazione della vita degli altri e la proiezione che siano facilmente soddisfatti in una vita più generosa e semplice. Rende capricciosi, instabili, ipersensibili, sentendo di dover avere attenzione a tutti i costi. L’assillo dell’originalità e dell’unicità che nutre questo schema vive di carica emotiva, del bisogno di fare paragoni negativi e di usare l’immaginazione e la fantasia per intensificare e prolungare tale carica. Porta a volersi sentire speciale, a cercare di essere diverso dagli altri, a confondere il fare quello che si vuole quando si vuole con l’essere onesti con se stessi. Provoca autocommiserazione, odio e rifiuto per se stessi e trasforma la sensibilità in sabotaggio e punizione di se stessi e indirettamente degli altri.
Sono gli altri che si accontentano di ciò che hanno, che sono banali e superficiali, che non sono abbastanza sensibili, che dovrebbero essere più onesti con se stessi.
Spesso al dialogo interno ricco di pensieri morbosi e di disprezzo per chi non sostiene le richieste emotive, si accompagnano la dolorosa esperienza emotiva di vergogna, depressione e di essere incapaci di stare al mondo e anche specifiche tensioni fisiche nella zona del diaframma. La sensazione è quella di fame d’aria e di poco sostegno negli arti sia superiori sia inferiori.
È importante osservare la relazione tra gli stati delle nostre emozioni e il modo in cui tendiamo a percepire noi stessi e il mondo attorno a noi. La consapevolezza delle proprie emozioni è importante e richiede l’intento a rivolgere lo sguardo dentro di sé, tuttavia è necessario che tale osservazione e consapevolezza conducano a uno spazio di libertà e che lo sostengano. Se intrappolano significa che ci si è persi dentro l’emotività, che si è motivati dalla paura e dalla sfiducia, non dall’amore.
La maggior parte della nostra sofferenza è perpetuata dal nostro attaccamento inconsapevole alle emozioni difficili e al dolore. Il dolore può essere cruciale nel processo di crescita, ma non l’unica via. Talvolta è un insegnamento e talvolta è solo una resistenza a vedere le cose come sono e ad assumere la responsabilità di ciò che si prova, si pensa e si fa. Il cuore distorce la realtà tanto quanto la mente. Crescere e svelare il proprio vero sé è vedere ciò che è come è e comprendere la dimensione delle emozioni e del ruolo che gioca nel processo evolutivo.
L’equilibrio interiore che accompagna le reali trasformazioni ed evoluzioni è possibile solo con l’accettazione e il rimanere con ciò che c’è, senza crearci attorno una una storia o alimentare la reattività. Questo crea spazio nel cuore e apre una prospettiva più vasta sulle esperienze. Solo un cuore spazioso e libero dal passato può davvero amare. Amore è spaziosità del cuore. Da questa prospettiva l’emotività è una difesa dalle emozioni reali e profonde e dall’amore e paralizza. E’ un costante abbandono di se. È masochismo, disperazione.
Qualcuno ora ha già compreso che le qualità dell’esperienza che sto descrivendo appartengono al punto Quattro dentro ognuno di noi. Ovviamente molto più forti e radicate per chi vive in questo territorio, Il tipo Quattro. Tuttavia è importante riconoscere quanto tutti, indipendentemente dal tipo, abbiamo accesso alle qualità di questo punto soprattutto quando siamo nell’area della ricerca di se stessi e del voler dare un senso alla propria vita.
C’è una parte di noi che costantemente sostiene un’identità ben precisa per credere che la nostra storia e la nostra vita abbiano significato, e che si concentra su ciò che conferma questa identità immaginaria: se ci sentiamo in certo modo definito allora siamo noi, altrimenti no. È una falsa versione dell’identità, dell’intimità con se stessi e del contatto con la profondità e bellezza che mai potrà soddisfarci.
Tutti abbiamo fatto esperienza del preferire sentirci incompresi e delusi all’accettare aiuto e amore. A rendere ancora più complicato questo schema c’è il fatto che il punto Quattro in ognuno di noi è in perenne conflitto con un’altra parte di noi, quella che giudica pesantemente gli altri, che ha totale disinteresse per come si sentono, che è egocentrica, insensibile, controllante e cattiva. Sotto il tappeto della sensibilità ci sono durezza e senso di superiorità.
Come pratica per scoprire il nostro punto Quattro bloccato nello schema limitante potremmo per qualche giorno notare se abbiamo la tendenza a fare spesso attenzione alle nostre differenze dalle altre persone e anche quanto ci costa in termini di connessione con gli altri, quanto ci impedisce di iniziare attività che possono essere benefiche per noi. Oppure se nell’arco della giornata usiamo l’immaginazione per fantasticare, per sognare a occhi aperti. Possiamo notare se crediamo che alcune emozioni siano più “me” di altre e quale è il nostro umore di base la maggior parte del tempo. Notare se c’è la tendenza a voler comprendere il significato delle nostre emozioni ed esperienze.
Poi è utile intercettare un dialogo interno o una reazione fisica tipica di questi momenti. Conoscere come funzioniamo nella mente, nel cuore e nell’agire è l’unica via di libertà dall’automatismo.
Il paradosso è che si può essere davvero in intimità con se stessi ed efficaci e sensibili veicoli di profondità e bellezza solo se si è presenti a ciò si sperimenta con accettazione e integrità. Lasciare andare le vecchie storie del passato, smettere di rimanere attaccati alla tristezza, specialmente quella connessa alle esperienze dell’infanzia e dell’inadeguatezza delle figure genitoriali, è il passo fondamentale che questo punto ci invita a fare perché il senso di identità sia la propria vera natura. Il falso senso di sé è una caratteristica importante del punto Quattro a Livelli medi e bassi, ben mascherata dall’ipersensibilità e dallo sforzo di essere unici, attitudini che implicano la non accettazione dell’esperienza reale. Lasciare andare il disinganno, il falso senso di sé unico in cui si è investito per conquistare un senso di intimità con Dio è lasciar emergere il mistero.
È necessario rendersi conto di essere finiti in questa trappola per poterla accogliere e per intenzionalmente permettere un movimento oltre la essa. Consapevolmente concedere all’esperienza di essere quello che è e lasciare che la spaziosità del cuore abbracci tutte le emozioni senza bisogno di attaccarsi ad alcuna di esse, che permetta di sciogliere l’odio e le ingiuste ferite e apra al perdono. Non come un atto di volontà, ma come assoluzione, come l’Essere che riempie l’anima. Così si può conoscere se stessi e il proprio significato, la propria Identità reale, non come un’etichetta, ma attraverso il mistero che si svela, la bellezza e il cuore nel momento.
Il primo sostegno per accettare la realtà interiore del momento è la presenza nel corpo. Non nell’idea che ne abbiamo, non a come ci fa sentire emotivamente, bensì proprio nei sensi, nei muscoli, nel sangue, nelle ossa, nelle viscere. E poi lasciare spazio alla curiosità, al desiderio di esplorare ciò che accade e di allargare i propri orizzonti. Tutto questo aiuta a rimanere collegati all’interiore senso di sacro, divino, equilibrato, bello e profondo. E anche a riconoscere che essere ed esprimere se stessi non richiede lo sforzo e il controllo che ci immaginiamo e che ci infliggiamo. Conduce all’amore e alla gratitudine per ciò che è.
Quando iniziamo a svegliarci iniziamo anche a essere davvero stanchi delle nostre altalene emotive e reattività, vogliamo onorare la bellezza di tutto ciò che siamo e di chi siamo, l’umanità, l’intimità, la fiducia.
Il mio augurio è che l’ingresso nell’autunno sia dedicato al sostegno delle transizioni, da un’attività a un’altra, da un’esperienza all’altra, da una fase di vita a un’altra. Alla sintonizzazione con il proprio cuore, all’onorare chi siamo e al potere della sincronia.
Maura Amelia Bonanno