La prima nobile verità del buddismo è che la vita comporta sofferenza. Tutti siamo soggetti agli inevitabili dolori della vecchiaia, della malattia e della morte. E poi ci sono sofferenze non necessarie e trasformabili che sono quelle derivanti degli schemi del nostro tipo come l’illusione, l’ansia, la frustrazione, la rigidità. La consapevolezza e la presenza allentano la morsa della sofferenza non necessaria e questo offre risorse per la sofferenza che non possiamo evitare.
Cosa significa soffrire, cosa è per noi il dolore?
Passiamo la nostra vita a cercare di evitare il dolore e la sofferenza, ignorarli, annegarli. Cosa succede se non li consideriamo e come conseguenza creiamo ancora più sofferenza per noi stessi e per gli altri? Come partecipiamo in questo mondo umano da sempre pieno di dolore e sofferenza? Fingiamo di essere contenti? Ci distraiamo insieme ad altri che si illudono di sfuggirne? Vogliamo salvare il mondo, ma non vogliamo riconoscere il nostro dolore?
Ci distraiamo incessantemente con attività e impegni, alimentiamo l’attenzione a ciò che pensiamo, oppure ai problemi degli altri, a obbiettivi e traguardi, a modi per cercare di gestire le nostre difficoltà e disagi. Lo facciamo da sempre, tanto da ritenerlo normale e sano, e abbiamo paura di smettere di farlo perché se accade rischiamo di sentire la reale sofferenza in cui siamo intrappolati.
Proprio lo sforzo di evitare il disagio e volere che le cose siano diverse da quello che sono è uno dei modi in cui ci manteniamo assenti a noi stessi e creiamo sofferenza. Eppure in natura tutto ciò che evolve è anche disagevole o doloroso.
Ciò che rende il dolore intollerabile è la reattività che abbiamo a riguardo, l’idea che ne possiamo sfuggire, il pensiero di dover trovare modi per evitarlo. Le scelte più squilibrate e dannose che facciamo sono dettate proprio da questa convinzione. La sofferenza cessa quando è trasformata e perché questo possa accadere, è fondamentale smettere di scappare.
Non siamo qui per eliminare il dolore e la sofferenza, bensì per digerirli e fare spazio a una gioia reale e disponibile. Le spugne e le creature del mare metabolizzano il materiale marino e lo trasformano. Le vie spirituali fanno lo stesso, trasformano, trasmutano. Questo è ben diverso da cercare la sofferenza o alimentarla, cosa peraltro non necessaria perché è già abbondantemente disponibile.
Le solide tradizioni spirituali – e l’Enneagramma ne fa parte – suggeriscono che la trascendenza del dolore e della sofferenza è un’illusione. La non sofferenza non è un opzione, solo chi è squilibrato può credere sia possibile. Non importa quanto facciamo, non c’è modo di sfuggire al reale dolore. Prima o poi ci becca e non abbiamo scelta. Le tradizioni spirituali insegnano che la realizzazione del dolore e della sofferenza sono alla base della nascita della gentilezza e della compassione. Ci invitano a stare con il dolore con coraggio, con gentilezza, con dignità e che la presenza a noi stessi aiuta a rimanere direttamente con il dolore che sia fisico, emotivo o mentale, ne permette una visione più ampia e ne cambia la natura.
Essere presenti a se stessi è ben diverso dall’essere immediatamente e per sempre più liberi e felici, questa è un’illusione New age o del pensiero magico di un bimbo. Anzi, più presenti siamo, più ci rendiamo conto sia della nostra sofferenza, sia di quella altrui, così come la gioia che proviamo è più reale e solida. Con maggiore vitalità tutto si sente di più. Quando amore e gentilezza entrano in scena si fa esperienza di maggiore grazia così come di consapevolezza che la sofferenza è parte delle esperienze della vita come tutto il resto. Si diventa più forti nella capacità di metabolizzare e trasformare gli aspetti difficili della vita e nell’abilità a lasciare spazio alla nascita di qualcosa di nuovo, a una libertà e una gioia inalterabili. Ricordo con infinita gratitudine e dolcezza i momenti in cui il mio maestro ha pianto insieme a noi.
Per questo praticare presenza quando la vita è più semplice aiuta a creare sostegno per quando la vita è più difficile. Per esempio è importante come iniziamo la giornata. Invece di saltare dentro alla nostra fissazione appena svegli, invece di controllare i messaggi sul telefono appena apriamo gli occhi, invece di accendere subito la prima sigaretta, potremmo allenarci a stare, respirare, sentirci, essere, scegliere dove indirizzare l’attenzione.
I tre tipi “visione positiva” dell’Enneagramma – il Nove, il Due e il Sette – ci insegnano molto riguardo alla gestione della sofferenza. Questi tre punti e tipi possono essere schemi organizzati per evitare la sofferenza in modi molto accurati oppure possono essere qualità che ci rendono capaci di portare leggerezza, apertura e gentilezza nel mondo.
Il Due intrappolato nello schema può andare in giro a cercare di gestire i problemi degli altri, del partner, dei figli, dei colleghi, degli amici. Rifiuta se stesso e si coinvolge talmente nel mondo degli altri da non dover gestire il proprio. È il maestro dell’attenzione all’altro per mantenere una falsa immagine di altruista sopra una realtà interiore di dolore ed egoismo che nega a se stesso. Oppure il Due che ha contattato e accettato i propri limiti, le proprie debolezze, i propri bisogni e sofferenza è enormemente abile a esserci per gli altri, a sostenerli e a farli sentire che non sono soli nella loro sofferenza. Posso negare il mio dolore e sperare di risolverlo curandomi degli altri oppure riconoscere i reali bisogni e sostenerli. Cosa è più soddisfacente?
Il Sette intrappolato nello schema è l’eccellenza nella fuga e nell’evitamento della sofferenza. Da piccolo ha deciso che farà il possibile per sfuggirne, ben contento della propria scelta. Diventa maestro della via di uscita, passando alla cosa successiva e alla successiva in continuazione, mettendosi in questo modo in prigione da solo e alimentando sofferenza per se e per gli altri. Quando si permette di sentire che il terreno della positività che desidera è già presente e sempre disponibile e che tale terreno permette l’abilità di processare le difficoltà, allora è capace di attraversare la sofferenza e portare luce e leggerezza anche a quella degli altri, senza scappare. E in questo trova la gioia e la gratitudine dell’esistenza che cerca. Posso fare di tutta la vita un gioco, distrarmi e distrarre, oppure essere davvero capace di sostegno per un amico che soffre. Cosa è più soddisfacente?
Il Nove intrappolato nello schema è un maestro a sembrare coinvolto e connesso con l’altro senza esserlo. Sembra presente, ma non lo è, ritira l’attenzione, si allontana interiormente e si mantiene positivo dentro in difesa da un mondo che percepisce aggressivo, conflittuale e violento. Quando impara a stare con i propri e altrui sbalzi interiori, a coinvolgersi con il mondo, allora è in grado di stare con tutte le condizioni della vita, con la gioia come con le difficoltà e la sofferenza. Posso vivere nella separazione interiore illudendomi che funzioni per non farmi influenzare o esserci totalmente e lasciare che chi sono sia riconosciuto e apprezzato. Cosa è più soddisfacente?
Questi tre punti e i tipi sono cruciali nella gestione della sofferenza.
C’è una sofferenza che è connessa alla fissazione e alla passione descritti dall’Enneagramma e una sofferenza più nucleare connessa alla sensazione che non siamo o ciò che sappiamo o crediamo essere, che non stiamo vivendo la nostra vita appieno, nella verità, che non stiamo soddisfacendo ciò che sentiamo dovremmo. È dolore, è coscienza. Gurdjieff diceva che senza riconoscere questo dolore i nostri cambiamenti sono solo cosmetici, non sono sostanziali, bensì il ripetersi di schemi e meccanismi, la stessa zuppa con fattezze diverse. La trasformazione accade quando incontriamo il nucleo del nostro dolore con presenza alle contraddizioni e alle difficoltà della vita.
A chi si illude di poter sfuggire al dolore, questo sembra masochismo. Masochismo è invece proprio evitarlo e alimentare sofferenza nei soliti meccanismi di fuga.
Toccare il dolore reale del nostro nucleo mostra quante bugie ci raccontiamo, quanto siamo oltre a ciò che crediamo di essere, evidenzia cosa è davvero importante, quali abitudini alimentano il senso di separazione, prolungano la sofferenza e distruggono la fiducia in noi stessi.
Gurdjieff diceva anche che se comprendiamo che la nostra fissazione è la strategia per intontirci alla sofferenza, per non sentirla, allora comprendiamo anche che è ciò che ci allontana da noi stessi e dalla reale libertà. Nella coscienza ordinaria in cui siamo intrappolati nella fissazione del nostro tipo dell’Enneagramma viviamo l’esperienza della separazione e dell’isolamento. Non sentiamo il dolore e la sofferenza perché siamo nella dissociazione. È lo stato in cui siamo disfunzionali in tutti e tre i centri, nella contrazione del corpo, nella reazione narcisista del cuore preoccupati di piacere o meno alle persone, nel dialogo interno che ripete sempre gli stessi pensieri, le stesse opinioni, le stesse immagini.
È necessario che ci sia un centro attivo perché notiamo che siamo intrappolati in qualcosa, in un pensiero ricorrente, in un’emozione che ci cattura, in un’abitudine e una tensione fisica. Un centro attivo è necessario per intuire che siamo altrove, che c’è altro rispetto a ciò che abitualmente crediamo e questo è importante per poter fare un passo diverso.
Tuttavia l’intuizione di un solo centro è inutile, può finire lì. È necessario che ci siano due centri attivi per iniziare a notare, vedere e discernere qualcosa e poter arrivare a una comprensione, alla realizzazione delle implicazioni delle nostre esperienze.
Per esempio ci sono persone che valutano molto le reazioni di pancia, con l’esclusione della ragione e dell’amore, spesso con il vanto di seguirle ciecamente nonostante il 99% delle volte questo porti a fare scelte dannose.
L’intuizione di un solo centro che esclude gli altri è raramente azzeccata e siamo ostinatamente resistenti ad ammettere quante volte ci siamo sbagliati in modo spettacolare. Ci piace ricordarci dell’unica isolata volta in cui abbiamo avuto ragione.
Per la trasformazione sono necessari i tre centri – pancia, cuore e testa – funzionanti e coinvolti. E ogni tipo ha una propria architettura a riguardo, un proprio schema e dinamica interni che li riguarda. La comprensione di queste dinamiche è quanto di più lontano ci possa essere da una collezione di informazioni teoriche riguardo ai tipi.
Gurdjieff insegnava che solo quando i tre centri sono coinvolti e in allineamento siamo persone. Solo in questo caso siamo agenti e non macchine che seguono ciecamente schemi limitanti. Possiamo essere macchine di successo, macchine creative, ma con una visione e una prospettiva molto limitate e in continua reattività. Possiamo vedere come molte persone ripetono sempre le stesse scelte nell’incapacità di riconoscere alternative e rendendo la vita sempre più invivibile.
Il punto non è credere che ci sia qualcosa di sbagliato in noi o nell’umanità, piuttosto riconoscere che siamo in evoluzione, specificatamente in una evoluzione spirituale. Invece di pensare che siamo un casino e un fallimento possiamo riconoscere che c’è un impulso a evolvere che emerge da un luogo sacro e profondo e che possiamo essere e fare del nostro meglio per seguirlo, anche se nessuno sa come. Impariamo insieme a scoprire la strada verso qualcosa di nuovo. Possiamo riconoscere che non siamo soli in questa esperienza, che moltissime persone ne sono toccate come lo siamo noi. Che c’è una spinta ad andare oltre le limitazioni autoimposte senza proiettarle all’esterno. Siamo spesso impazienti, ma la specie umana non è su questo pianete da molto. Aspettarci che i cambiamenti dell’umanità accadano in pochi decenni causa inutile sofferenza. Ricordiamocelo in quest’epoca annunciata di rivoluzione planetaria.
C’è tantissima bellezza e solidarietà e impulso per la vita e la vera libertà che sta emergendo da moltissime persone in questo momento. Intenzionalmente cerchiamola. Troviamola. Nutriamola.
Buon ingresso nell’autunno
Maura Amelia Bonanno