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Newsletter settembre 2017

È l’epoca dei mischioni concettuali, del dilagante utilizzo a casaccio delle parole, dei termini ispirati dalla negligenza e a loro volta suo nutrimento. Sappiamo che le parole creano il mondo e usare le parole in modo raffazzonato può solo sostenere la creazione di un mondo di pari qualità. E’ un circolo vizioso perché la trascuratezza nutre se stessa e ho tante volte avuto modo di sperimentare che quando non curo le parole che dico e che mi dico, se non chiamo le cose con il loro nome, questo mi procura confusione e ancora maggiore negligenza. E’ difficile rendersene conto, ma possibile. E una volta che lo si riconosce, ancora più difficile è cambiare, ma possibile.

Nei contesi formativi più disinibiti ho notato un frequente utilizzo della parola ‘consapevolezza’ nel senso di ‘sapere’ ciò che accade, quando osservando con più cura si scopre che pur sapendo ciò che sta accadendo possiamo non esserne consapevoli. Per esempio sappiamo la funzione delle cellule nel nostro corpo, ma non ne siamo consapevoli. E’ anche frequente adoperare i termini ‘coscienza’ e ‘consapevolezza’ come fossero sinonimi, quando pur essendo processi strettamente correlati e interconnessi, sono in effetti indipendenti e hanno funzioni distinte: la prima coglie l’oggettività fisica del reale e la seconda trasforma quella oggettività in sensi e significati. Certo, la consapevolezza influisce sulla coscienza, ma non è detto ne dato che al sapere e alla coscienza faccia seguito la consapevolezza. Tutto dipende da cosa la coscienza prende in esame. Esiste un sistema interpretativo della realtà che risiede a un livello inconscio – e quindi distante dalla coscienza e dalla consapevolezza – e che crea dei modelli e partecipa attivamente alla formazione dei pensieri. Quindi ciò che può apparire oggettivo alla coscienza in effetti può essere generato da una interpretazione errata della realtà e di conseguenza la consapevolezza valuta quella realtà percepita che è falsa o apparente. Inoltre la consapevolezza opera sulla base delle conoscenze che acquisisce, quindi la sua attività di valutazione può trovarsi a lavorare su dati condizionati a monte.

L’Enneagramma descrive in modo egregio i nostri sistemi interpretativi e i modelli cognitivi, emotivi e percettivi da essi creati. La trappola è l’essere ciechi a se stessi ed essere convinti che le interpretazioni errate siano realtà oggettiva, crediamo a quello che pensiamo di vedere e siamo convinti di vederci benissimo. L’Enneagramma ci può aiutare mostrandoci le convinzioni e i sistemi di credenze, ma possiamo comunque vivere i meccanismi del nostro Tipo e istinto dominante come un vanto, e quando questo accade siamo molto fuori strada. 

In tanti anni di pratica introspettiva e di frequentazione di ambienti dedicati alla conoscenza di sé ho notato che molti modelli di crescita non hanno relazione con il temperamento individuale e alcuni non sono davvero di aiuto, bensì rinforzano i nostri automatismi. Spesso cerchiamo e seguiamo tecniche e pratiche che ci permettono di continuare a riconoscerci nell’abituale senso di sé, di sentirci a posto ed efficienti, di rinforzare l’immagine che abbiamo di noi stessi e che quindi sostengono l’oblio di sé. Anche se questo porta a cambiare il tipo di azione o di comportamento, è in realtà spesso solo un coatto cambiare tipo di dipendenza o di convinzione all’interno dello stesso schema, rimanendo nell’inconsapevole reattività, nella difesa e nella mancanza di scelta. Un po’ come cambiare arredamento alla prigione in cui si vive.

Questa considerazione mi collega un’altra confusione di termini, quella tra gestione e controllo. Recentemente, in occasione di un modulo nella formazione in Educazione al movimento somatico che sto seguendo, due insegnanti mi hanno fatto riflettere sulla differenza tra controllo e gestione. Durante un’esplorazione in movimento mi sono resa conto di una semplicità non banale, che in natura non esiste il controllo, bensì la gestione. In natura, incluso quindi l’essere umano come organismo vivente, non esiste leadership bensì intenzione e direzione che sostengono ciò che è più adeguato ad agire per un certo contesto e tempo. Il controllo è meccanico, una forma di utilizzo del potere che limita, esamina, paragona, verifica, domina, confina, ristringe. La gestione è l’utilizzo migliore delle risorse del sistema, è misurare, dosare, guidare, condurre e indirizzare qualcosa nel modo più adeguato alla migliore riuscita per il sistema. L’evoluzione non risponde al controllo, ma a un invito. 

Una pratica di crescita che sia spirituale, psicologica o religiosa che davvero sostiene l’evoluzione e l’espressione della nostra natura deve essere difficile perché sfida l’automatismo e le convinzioni, sgretola i modelli, rivela le storie che ci raccontiamo su noi stessi e sugli altri. Fa capitolare il controllo inconsapevole che difende i sistemi di credenze e sostiene la gestione e l’espressione di chi siamo. Onora la vita.

E’ possibile rendersi conto della negligente meccanicità in cui si vive, ma come il maestro armano Gurdjieff sottolineava: “Un uomo non può dire di comprendere l’idea della meccanicità quando la conosce soltanto con l’intelletto. La deve sentire, in tutto il suo corpo, con l’intero suo essere. Allora la comprenderà. […] Potete essere aiutati quando cominciate a conoscere voi stessi, ma fintanto che non conoscete la vostra macchina, anche se l’aiuto vi è offerto non potete farne uso. […] Se non sapete ciò che state ricevendo potete solo trasmettere meccanicamente.” Sempre Gurdjieff ricordava: “Ma anche se l’uomo comprendesse nel modo più chiaro le sue possibilità, questo non lo farebbe progredire di un solo passo verso la loro realizzazione. Per essere in grado di realizzare queste possibilità deve avere un desiderio di liberazione molto forte, deve essere pronto a sacrificare tutto, a rischiare tutto per la propria liberazione”. 

Fare attenzione ai termini che utilizziamo, al loro significato reale e al contesto, è una pratica che richiede intenzione e direzione e che può essere illuminante. E’ una responsabilità coraggiosa. Possiamo ispirarci a coloro che ci sono riusciti, esseri, persone che in genere parlavano poco o che parlavano facendo attenzione alle parole e di solito erano presi per matti. Meglio pensarci due volte perché la chiarezza, l’attenzione e l’amore per la verità non vanno di moda e coloro che la propongono fanno venire l’orticaria ai più. Uno lo hanno pure crocifisso. C’è un sacco di matti là fuori e scegliere di svegliarsi può avere risvolti poco salutari. Quindi meglio se continuiamo ad arredare la prigione in cui viviamo. 

Eppure, nonostante la dilagante negligenza verso il dono della vita, le difficoltà che si incontrano e i fallimenti sulla strada della liberazione, grazie a Dio esistono tantissime persone che non possono fare a meno di continuare a provarci e questo mi motiva e mi scalda il cuore.

“Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti! (Michele, da Palombella Rossa, film italiano del 1989 diretto e interpretato da Nanni Moretti)