Che c’è di male nel voler aiutare gli altri? Voler donare, voler essere a servizio dell’altro è un impulso elevato e bellissimo. Possiamo concordare sul fatto che dare e ricevere sostegno è un desiderio comprensibile e sensato, ma non lo è più quando è una reazione al senso di perdita dell’Essere, una ricerca coatta e inconsapevole di ricreare l’idea che abbiamo dell’esperienza dell’amore. Vogliamo sentirci generosi e amabili, parte di un universo abbondante e gentile e finiamo per manipolare emotivamente.
Nell’anelito all’altruismo e al donare disinteressato si nascondono diverse possibili trappole. Molti individui aiutano gli altri per sentirsi necessari, importanti e amati. Un desiderio che si basa sul preconcetto che l’amore per se stessi un atto di egoismo e sulla convinzione che si possa ricevere amore solo se ci si occupa dell’altro. Questo preconcetto porta all’obbligo interiore a dare attenzione per riceverla, alla generosità negoziata, all’amore a certe condizioni, al dipendere dall’esterno per sentire stima per se stessi. Questa attitudine si accompagna al sentirsi generosi senza interesse personale, animati solo da buone intenzioni, convinti di avere tanto da offrire senza bisogno di un ritorno se non la felicità dell’altro. Mettere le necessità e i desideri degli altri sopra ai propri tuttavia non è un atto d’amore incondizionato, bensì è l’ambizione nascosta e mascherata alla base della manipolazione emotiva e delle dinamiche di co-dipendenza.
La trappola è che quando l’altruismo si basa sulla mancanza di attenzione e amore verso se stessi e sull’abitudine a occuparsi dell’altro senza occuparsi di se stessi porta nella direzione inversa a quella anelata: la separazione.
Siamo stati educati e siamo cresciuti con un condizionamento religioso potente secondo cui più ci sacrifichiamo più siamo spirituali, secondo cui coltivare umiltà consiste nel dare attenzione ai bisogni degli altri e nel cercare di soddisfarli. Un ambiente in cui sacrificio e umiltà diventano sinonimi e narcisismo e nutrimento di se stessi sono confusi tra loro. Un tremendo inganno circa le proprie reali motivazioni. La credenza di non avere ne sentimenti negativi ne bisogni e l’abbaglio di essere la fonte della felicità nella vita dell’altro nutre un un falso senso di compassione e di essere spirituali. La falsa umiltà si basa su un irrealistico senso di se stessi e sulla sopravvalutazione delle proprie doti, sul sentirsi interiormente abbondanti, capaci di fare accadere la connessione e l’amore con i propri atti caritatevoli, di poter provocare nell’altro la risposta accogliente che si vuole.
Spinge a credere di sapere di cosa l’altro ha bisogno meglio di quanto l’altro sappia, a sentirsi in dovere e autorizzati a elargire suggerimenti non richiesti, a intromettersi e diventare invadenti e soffocanti. Sono gli altri che non “aprono il loro cuore” abbastanza, che hanno resistenze, che non sanno amare, che dovrebbero essere riconoscenti della nostra disponibilità.
Spesso al dialogo interno ricco di giudizi e ideali circa l’amore, la relazione, il giusto modo di essere in comunione con gli altri, si accompagnano la dolorosa esperienza emotiva di sentirsi dati per scontati, indesiderati, indegni d’amore e di attenzione e anche specifiche tensioni fisiche nella zona del petto e degli arti superiori. La sensazione è quella di non riuscire a riempire i polmoni, una stretta alla base dello sterno.
L’attenzione all’altro è importante e fondamentale in qualsiasi relazione, tuttavia perché sia reale è necessario che non vada a discapito di se stessi. Se non siamo in contatto con ciò che proviamo, pensiamo e sentiamo, l’attenzione è motivata dalla paura che se non intuiamo e comprendiamo di cosa l’altro ha bisogno e non lo soddisfiamo, perderemo il suo amore. Cercare di creare complicità per esempio con la seduzione, compiacendo o facendo elogi, oppure concedendo favori o diventando il confidente intimo, in realtà non solo impedisce di riconoscere una connessione già presente, ma la distrugge. Il reale ascolto e il dare disinteressato sono possibili solo se sorgono da una abbondanza interiore reale, non da un vuoto inconsapevole. Dalla pienezza e dalla gioia possibili quando si è presenti a se stessi e si accolgono e amano tutte le sfaccettature di sé prima di protendersi verso il fuori.
Qualcuno ha già compreso che le qualità dell’esperienza che sto descrivendo appartengono al punto Due dentro ognuno di noi. Ovviamente molto più forti e radicate per chi vive in questo territorio, Il tipo Due. È importante riconoscere quanto tutti, indipendentemente dal tipo, abbiamo accesso alle qualità di questo punto soprattutto quando siamo nell’area della “compassione”. C’è una parte di noi che vuole sentirsi amata a tutti costi, che cerca di creare una falsa versione di contatto, nutrimento emotivo e autostima che mai potrà soddisfarci. Tutti abbiamo fatto esperienza del soffocare amarezza e sofferenza e indossare un volto amorevole convinti che così avremmo evitato una sconnessione dall’altro.
A rendere ancora più complicato questo schema c’è il fatto che il punto Due in ognuno di noi è in perenne conflitto con un’altra parte, quella incredibilmente fragile, egocentrica ed esigente, che fugge e si nasconde da se stessa e dalle reali emozioni, desideri e bisogni pretendendo che siano gli altri a soddisfarci. Sotto la falsa umiltà della preoccupazione per gli altri c’è la mancanza d’accettazione di sé, del proprio essere umani, dei propri limiti e del proprio reale valore. Un rifiuto di se che diventa rifiuto degli altri ed è dolorosissimo.
Come pratica per scoprire il nostro punto Due bloccato nello schema limitante potremmo per qualche giorno annotare su un quaderno cosa facciamo per piacere agli altri e per assicurarci la connessione con con loro. Come giustifichiamo la nostra presunta generosità, come anche molto sottilmente richiamiamo attenzione riguardo a ciò che facciamo per gli altri. Poi è utile intercettare una reazione tipica dei momenti in cui ci coinvolgiamo con qualcuno che percepiamo bisognoso o in cui sentiamo l’urgenza a fare qualcosa per qualcuno: un pensiero, un’emozione o una sensazione fisica. Conoscere come funzioniamo nella mente, nel cuore e nell’agire è una via di libertà dall’automatismo e che ci permette di conoscere e rispettare ciò di cui noi abbiamo davvero bisogno.
Il paradosso è che possiamo essere davvero in connessione con gli altri solo se lo siamo con noi stessi. Rivolgere l’attenzione all’interno, accettarci totalmente senza rifiutare nulla della nostra umanità vulnerabile, essere gentili con le nostre esigenze, notare come reagiamo interiormente quando gli altri si dedicano a noi e come blocchiamo l’amore è il passo fondamentale che questo punto ci invita a fare perché aiutare sia un gesto d’Amore. La manipolazione delle proprie e altrui emozioni è una caratteristica importante del punto Due a Livelli medi e bassi, ben mascherata dalle buone intenzioni e dalla premura.
È necessario rendersi conto di essere finiti in questa trappola per intenzionalmente permettere un movimento oltre la essa. Consapevolmente concedere all’esperienza di essere quello che è e lasciare spazio alla propria amarezza, delusione, tristezza e anche odio. Perdere il senso di falsa amorevolezza e altruismo, riconoscere il caos delle nostre relazioni, la reale motivazione del nostro altruismo, quante scelte facciamo senza sapere perché.
Il primo sostegno per imparare a essere onesti circa il proprio mondo interiore e amarsi, per accettare la realtà interiore del momento, è la presenza nel corpo. Non nell’idea che ne abbiamo, non a come ci fa sentire emotivamente, bensì proprio nei sensi, nei muscoli, nel sangue, nelle ossa, nelle viscere.
Amarsi non è seguire ciecamente le passioni o ciecamente lottare con esse. Amarsi è riconoscere i propri reali bisogni e onorarli. È accettare con gratitudine la realtà della relazione con se e con gli altri. È riconoscere che abbiamo bisogno degli altri per evolvere, che i nostri amici e amati spesso rispecchiano gli aspetti inosservati del nostro sé profondo e ci possono sostenere a essere più sinceri e davvero umili. Quando iniziamo a svegliarci iniziamo anche a essere davvero stanchi di fare il martire per dare prova del nostro amore, vogliamo permettere onorare e nutrire la connessione e l’amore già presenti. Amare se stessi e gli altri senza alcuna attesa di un ritorno è quell’amore universale che conosce il tutto come uno, che fa spazio al sentirci veicolo dell’amore.
Il mio augurio è che questi mesi estivi siano dedicati al reale contatto e amorevolezza, alla sintonizzazione con il proprio corpo e al potere unificante del nutrimento di se.
Maura Amelia Bonanno